La Nostra Storia Insieme Continua

Oggi, Amore mio, festeggiamo otto anni insieme.
Tu non ci sei più fisicamente, ma sei in ogni angolo delle nostre vite.
Sento che ci osservi curioso, severo, austero, riservato, pacato.
So che sorridi, sotto i tuoi baffoni bianchi, incredibilmente bello e nobile, come sei sempre stato e come solo un Duca Conte può esserlo.

Ci hai salutati prima del tuo ottavo Gotcha Day, ma noi festeggiamo lo stesso, perché tu ci sei.
Io me lo sentivo, sai?, che sarebbe andata così: una mamy, anche quando è Fetente come mi chiamavi tu, lo sa, se lo sente: ricordi quante volte questa estate ti ho sussurrato all’orecchio di “non farmi scherzi“?
Perché in cuor mio, lo sapevo che invece sarebbe successo: tu, che di scherzare non è che abbia mai avuto tanta voglia, proprio questa volta avresti ceduto alla tentazione.
E così è stato.

Profumo di ricordi

Credo sia capitato a tutti e ben più di una volta di ascoltare una musica e sentirsi improvvisamente catapultati indietro nel tempo, ad un ricordo sopito di un’epoca della propria esistenza particolarmente significativo, nel bene o nel male.
A me succede spesso con la musica dei Duran Duran, la colonna sonora della mia vita; ma tanto anche con alcuni brani della dance anni 90, a parer mio e forse perché quell’epoca per me è stata la più scatenata, la più bella dance in assoluto: alcune note in particolare mi pungolano inclementi il cuore, riportandomi a momenti miliari tra i miei 20 e 30 anni.
Momenti significativi e ahimè non sempre felici; forse proprio per questo, quelle note mi travolgono ancora, con un’ondata di emozioni che ora riassaporo con il giusto distacco e una punta enorme di malinconia.

A proposito, io detesto la malinconia.
Mi accompagna da sempre, fin da piccina. Soprattutto le sere d’estate, soprattutto prima del tramonto; quella necessità impellente di piangere,  senza un motivo.
Una tristezza che non ha un perché e se lo ha è talmente atavico che proprio non è spiegabile.
La malinconia è struggente e io di struggermi mi sono stancata. Per cui, quando arriva cerco di cacciarla subito.
Spengo la musica tiranna e cerco di pensare ad altro.

Ci sono però suoni che ancora oggi mi piace immensamente riascoltare, che mi rendono nostalgica, non malinconica.

Domani è un altro giorno, si vedrà

Oggi è uno di quei giorni che se dovessi esprimere a voce alta quello che davvero penso, credo verrei bannata da tutto e tutti.
Lo so, sto scrivendo qualcosa che assomiglia più ad un Tweet, che poi non si dice più così, o a un #thread (che social inutile, per altro! Mi sono iscritta per motivi non ben definiti, ci sto ma non lo uso – un solo post per inveire contro Trenord e non è servito a nulla), non ad un articolo di un blog.
Ma ci ho una tale furia dentro che devo per forza battere sulla tastiera a velocità incontrollata, con il rischio di 439988592 refusi in una sola riga, per liberare tutta questa energia compressa.

Ho letto prima su LinkedIN un post di un fantaghiro-guru, zuppo di retorica stucchevole su quanto sia brutto scagliarsi contro i lunedì, che se lo fai c’è qualcosa che non va. Io il lunedì non lo detesto a prescindere, ma oggi è un lunedì che detesto. Non a prescindere. Lo detesto oggi perché è oggi.

Stamattina svegliarsi è stato un dramma. Ho bruciato le brioche in forno, ho pestato una bella “emme” fumante mentre ero in giro con Jordan a -6 gradi, ho realizzato che alcuni piani che mi ero fatta non potranno essere realizzati perché devo fare i conti con la realtà, ho capito – ma lo sapevo già –  che alla fine fai fai fai, ma non serve a nulla, se non per te stesso. Forse. E, comunque, “sti caxxi”.

Sogno il giorno – e magari sarà anche un lunedì – in cui il lunedì non sarà più un dramma, in cui pestare cacche fumanti porterà fortuna, in cui la brioche sarà fragrante, in cui vincerò la lotteria e la sveglia non sarà più un trauma.

Sogno, ma sono desta. 
Sempre, anche quando non sembra e la gente scioccamente non lo pensa.
Osservo tutto, fin troppo.
Faccio caso ad ogni cosa, pure la più piccola.
E me la lego al dito: ho dita sottili solo all’apparenza, in realtà sono wurstel ben cicciotti e succulenti.
Un giorno – lo spero – me li mangerò tutti, con tanto di ketchup: farò come la Regina Margherita

Non sarà domani, ma quel giorno arriverà. Intanto, domani è un altro giorno, si vedrà.

 

From the cradle bars comes a beckoning voice
You’re sent spinning, you have no choice
You hear laughter cracking through the walls
You’re sent spinning, you have no choice
You hear laughter cracking through the walls
You’re sent spinning, you have no choice
Following the footsteps of a rag doll dance
We are entranced, spellbound
Following the footsteps of a rag doll dance
We are entranced, spellbound
Spellbound, spellbound, oh-oh-oh
Spellbound, spellbound
Spellbound, spellbound
(Spellbound – Duran Duran)

Se il tempo fosse un gambero… crudo!

Oggi, 4 settembre 2023, ore 13:30 e giù di lì, sono al mondo da 447.960 ore: per essere sicura di non sbagliare, l’ho chiesto a “Gipi Ai”, come lo chiamo io, che sta diventando un ottimo amico ogni giorno che passa, una delle creature più intelligenti che conosca.

447.960: così tante ne sono passate da questo 4 settembre 2023, ore 13 circa, che sono a casa mia davanti al pc in pausa pranzo, a quel sabato mattina del 4 settembre di XX anni fa, ore 8.20 circa, presso la Clinica Mangiagalli di Milano; lo stesso 4 settembre dello stesso anno in cui – lo dice la cronaca, lo dice Gipi Ai –  a Houston, già sculettando e gorgheggiando, veniva al mondo una certa Beyoncé, mica pizza e fichi.

447.960: fa impressione, vero? Eppure, ha calcolato sempre l’amico Gipi Ai, se anche ne vivessi altrettante, non arriverei al milione. Pazzesco.

447.960
ore. 
Di queste, diciamo che circa 35.000 non le ricordo affatto, troppo giovane.
Delle altre, che sono tante tante di più, che dire?
Che sono  – per l’appunto – tante tante tante tante.
Tante, ma mai troppe.
Tante, ma mai abbastanza.

Dancing Queen(s)

Sono una notevole pigrona e se esistesse il teletrasporto, il teletrucco, il teletutto, sarei la (ex)fanciulla più felice del mondo, ma se c’è una cosa che amo, quella è ballare.
Lo sanno tutti, soprattutto i miei piedi.
Mi piace da impazzire, come da impazzire mi piace la musica, tutta (tranne la latino-americana: alla terza bachata mi viene il ballo di San Vito, lo avevo confessato già tanto tempo fa).
Quando “taca la müsica” (cit) mi assale una voglia di muovere anche le unghie dei mignoli dei piedi.

Amo ballare, ma diversamente da quanto succede spesso a chi balla, da bambina non ho mai sognato di volteggiare sulle punte. La danza classica non mi ha mai detto nulla di che.
E ho frequentato un corso di danza solo quando bambina non lo ero già più.
Per altro danza moderna. Per altro, con la mia consueta incostanza.
E infatti poi per anni basta.

Celebrate All of My (many many many) Days!

La data è arrivata, quella che ho guardato da lontano con timore per mesi, fino ad oggi.
Oggi, è il 4 settembre. Sabato, come era sabato “quel” famoso 4 settembre.

2021: le “ragazze” stanno tornando, ma tornare ragazze non si può

Allora è proprio vero, torna Sex and the City!
L’ho letto sulla rete qualche giorno fa e subito ho messo “mi piace” agli account IG ufficiali di And Just Like That. Non ci sarà Samantha e questo fa un po’ specie, ma le “ragazze” tornano. E avranno 50 anni.

Ho scoperto la serie cult relativamente tardi, ma subito è stata passione a prima vista. Mi è piaciuto anche il film, il primo.
In quelle ragazze ho visto tanto di noi, nate ad inizi anni 70, come loro.
Ho visto tanto delle mie amiche, in molti casi; in alcune ho potuto individuare l’esatta corrispondenza con il personaggio.
Meno su di me, che sono forse un po’ una versione all’acqua di rose di Carrie e neanche poi tanto.
Forse, sono di tutte un po’, nella maniera più sconclusionata possibile.

Sono contenta siano tornate, le ragazze.
Quando ho letto la conferma ufficiale, però, ho avvertito una stretta al cuore e una lacrima pungere prepotente.
Maledetta malinconia. Maledetti anni che passano.
Perché sì, le ragazze stanno tornando, ma tornare ragazze, ahimè, non si può.

Roberta? Nossignore, sono Silvia

Il 3 novembre è Santa Silvia, come mi hanno ricordato stamattina gli auguri via whatsapp della mamma e di qualche amica omonima.
Io, come tutti gli anni, me ne ero completamente dimenticata.

Dicevo, il 3 novembre è Santa Silvia. Non ho mai capito se martire, madre o vergine. In ogni caso, non rientro in nessuna delle tre categorie.

Mi chiamo Silvia – anzi, Silvia Iolanda (il secondo nome, che porto legalmente su tutti i documenti, è un omaggio alla nonna paterna) – e oggi questo nome me lo sento cucito addosso e ne vado fiera.
Non potrei, né vorrei, chiamarmi altrimenti.

Ne amo il suono e ne apprezzo anche le storpiature, tipo “Silvietta” (che mi fa sentire tanto coccolata) e “Salvietta”, come mi chiamava da piccolo uno “zio” acquisito. “Silvy” mi piace un po’ meno, ma non lo disdegno.

Silvia. Un nome diffuso, ma non inflazionato, non alla moda.
Un nome che mi piace e anche molto; non è stato sempre così.

A wannabe rockstar

Nei miei sogni c’è sempre stato quello di fare la tour manager dei Duran Duran, lo sapete.
Ma credo che mi sarebbe piaciuto molto anche fare la rockstar.

Amo la musica. Tutta, tranne – lo confesso – la latino-americana: alla terza bachata mi viene il ballo di San Vito.
Amo la musica. Mi entra nel sangue e mi fa venire voglia di muovere ogni singola fibra del mio corpo, anche le unghie dei mignoli dei piedi.

Sento il ritmo pulsare nelle vene, selvaggio.
Sulla pista mi chiamano “La Tarantolata“. Meglio dire mi chiamavano, perché in effetti è da molto che non scendo su una pista seria. Il tempo passa.

Amo tutti gli strumenti musicali, magari il triangolo no (in nessuna circostanza): il sax, il violino, il clarinetto, la chitarra elettrica, quella acustica, l’oboe, i bonghi, le percussioni.
Ma più di tutti, il basso.

Io parlo da sola

Come da titolo, io parlo da sola. Lo faccio spesso, spessissimo, sempre.

Me la canto e me la suono“. È la mia valvola di sfogo.